LA CRIPTA: il deambulatorio

Il deambulatorio

A impreziosire la pavimentazione della Cripta troviamo le undici allegorie del deambulatorio, rivestite in mosaico, che rappresentano i valori cristiani: le Beatitudini e le tre Virtù teologali. Esse partono e si riannodano alla scritta: “Cammina alla mia presenza e sii perfetto”. Sono intercalate dal testo delle otto beatitudini che troviamo in Matteo 5,3-10.

Di seguito, il ciclo completo.

AMBULA CORAM ME ET ESTO PERFECTUS

Si parte con l’invito: “Cammina alla mia presenza e sii perfetto”. È tratto da Genesi 17,1-2.5.7: «Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: Io sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro (perfetto). Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto… Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò… Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te». Questa proposta è rivolta in piena libertà all’uomo che può scegliere di far aderire la sua vita a questo programma o rinunciarvi.

La frase latina può avere una ulteriore sottolineatura. Seguendo gli antichi testi legislativi possiamo anche tradurre: «Cammina alla mia presenza, cioè segui queste leggi, e sarai perfetto». Una promessa di perfezione se si osserverà la Legge del Signore.

La concretizzazione dell’alleanza o l’ottenimento della perfezione seguendo la Legge di Dio, viene qui espressa nelle tre virtù teologali e nelle beatitudini.

Dopo la scritta, proseguendo verso destra, la prima figura:

PAUPERTAS (la Povertà)

L’appello alla felicità, che richiede un cammino per essere perfetti, ha nella Povertà il primo passo. Biblicamente parlando la povertà non era segno di benedizione divina; però i poveri e i piccoli erano i protetti dal Re, mentre la ricchezza e il benessere sono occasione frequente di ribellione a Dio e di idolatria. I poveri in spirito vengono proclamati beati a causa della loro appartenenza al dominio potente di Dio. Il loro è uno stato reale e attuale di eredi. Essi, nel loro intimo, riconoscono che dipendono da Dio, che – senza Dio – per loro non ci sarebbe vita.

La figura ha le mani libere, ai suoi piedi i beni che ha abbandonato, e con i beni tutti i condizionamenti che impediscono di accogliere il messaggio salvifico. Le braccia sono rivolte al cielo in atteggiamento di contemplazione, quasi a dire che non si può accogliere nulla di bello senza liberarsi delle proprie convinzioni e certezze. È necessario portare la nostra intelligenza oltre i limiti umani della razionalità, e abbracciare il Mistero.

Seguono, proseguendo verso destra, le scritte:

BEATI PAUPERES SPIRITU QUONIAM IPSORUM EST REGNUM CAELORUM
(Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli)

BEATI MITES QUONIAM IPSI POSSIDEBUNT TERRAM
(Beati i miti, perché erediteranno la terra)

Seguono, proseguendo verso destra, tre figure:

LENITAS (la Mitezza o Dolcezza)

FIDES (la Fede)
Sul libro la scritta: EVANGELIUM (Vangelo)

MAEROR (l’Afflizione o Compunzione del cuore)

Il pannello raffigura, al centro, la virtù teologale della Fede con in mano il Vangelo. Lo abbraccia: è l’unica cosa a cui è legata. Stringe a sé l’unico bene importante e che le dà gioia… come volesse custodirlo.

L’affiancano le beatitudini della Mitezza (con in braccio un agnello) e dell’Afflizione. Solo alla luce della fede è possibile credere che i miti “erediteranno la terra” e gli afflitti “saranno consolati”.

La Mitezza è caratterizzata dal dominio delle proprie emozioni, tendenze e desideri, che minacciano di mettere il proprio comportamento sotto il segno dell’ingiustizia. Mite è colui che cerca le vie della giustizia e della corretta relazione con Dio e con il prossimo. È colui che, forte delle sue certezze in Dio, persegue la sua strada deciso, fermo nel suo proposito di arrivare alla meta, nonostante le asperità. Gesù, «mite e umile di cuore» è colui che si avvia deciso verso Gerusalemme; si rivolge ai suoi discepoli, perché imparino da lui (Matteo 11,28-30). Il primo evangelista ha, come sue proprie, altre due pagine su Gesù dal volto e dallo stile mite e umile (12,15-21; 21,1-11).

Quella del mite è una vocazione vicina a quella dei “poveri in spirito”. Nella lingua ebraica non vi è grande differenza tra i due termini “povero – ‘anawim” e “mite – ‘anijjim”, avendo la stessa radice ‘ n h.

E i miti sono coloro che non hanno altro difensore che Dio per rivendicare i loro diritti; sono coloro che Israele considerava i cittadini privilegiati della Terra promessa. Perciò essi «erediteranno la terra». Il verbo “ereditare” contiene implicitamente la relazione “padre-figlio”; e il riferimento è alla nuova Gerusalemme.

Gli “afflitti” sono “coloro che sono in lutto”, in ebraico avelim. La morte – e tutto quello che porta ad essa e le è collegato – è la causa principale delle lacrime, del lutto e pianto. Anche il peccato, rompendo la comunione con Dio, causa un lutto. Dio libererà la nuova Gerusalemme dalla morte e da quanto la accompagna.

Gli afflitti sono tali in quanto amareggiati perché non vedono ancora realizzato in sé e nel mondo il Regno di Dio. Sono coloro che piangono nell’attesa del Messia. Dio consolatore, nel futuro, farà sparire le cause del lutto. Ed essi incontreranno il Consolatore.

Seguono, proseguendo verso destra, le scritte:

BEATI QUI LUGENT QUONIAM IPSI CONSOLABUNTUR
(Beati gli afflitti, perché saranno consolati)

BEATI QUI ESURIUNT ET SITIUNT IUSTITIAM
QUONIAM IPSI SATURABUNTUR
(Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati)

Seguono, proseguendo verso destra, tre figure:

JUSTITIA (la Giustizia)

SPES (la Speranza)

MISERICORDIA (la Misericordia)

Sul terzo mosaico, al centro figura la Speranza, rappresentata con l’àncora. Quest’ultima, come è sicurezza di ormeggio nel porto, così è certezza nelle acque della vita del Cristiano ed è la sola che ci fa interpretare correttamente le beatitudini della Giustizia e della Misericordia.

L’uomo di speranza ha la certezza che la Giustizia di Dio opera con Misericordia. Entrambe sono attributi di Dio, il quale, agendo con Giustizia garantisce l’equità, ma con la sua Misericordia ci restituisce la vita. Se il castigo di Dio arriva sino alla quarta generazione, la sua Misericordia si estende fino a mille generazioni (Esodo 34,6-7).

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia». I verbi “avere fame” e “avere sete”, esprimono l’esigenza di nutrimento. E l’uomo, senza mangiare e bere, è condannato alla morte. Inoltre, quando Matteo parla di giustizia, designa sempre l’uomo che agisce secondo le norme di Dio. Perciò, fame e sete di giustizia designano il forte ed elementare desiderio e sforzo di comportarsi secondo le norme di Dio rivelate da Gesù. Si tratta di corretto rapporto con Dio, e da lui si può “venire saziati” effettivamente.

Il termine “misericordiosi” (al plurale) è assente nell’Antico Testamento, giacché questo aggettivo conviene soltanto al Signore, del cui nome è la spiegazione più appropriata («Il Signore, il Signore: Dio pietoso e misericordioso”, Esodo 34,6). La proclamazione di Gesù si rifà alla grande esperienza e professione di fede di Israele: il Dio della alleanza sinaitica è fedele e misericordioso, anche se Israele è sleale e ribelle a lui (cfr. Esodo 34,5-7; Salmo 102; eccetera).

Questa beatitudine dichiara che la misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso i nostri fratelli. Il giusto davanti a Dio lo imita nel suo agire verso il prossimo perdonando i torti ricevuti e impegnandosi a soccorrere gli indigenti.

Non dimentichiamo che uno dei nomi di Dio è quello di essere “il Misericordioso”. Per questo, nella beatitudine, alcuni scrivono: «… troveranno Misericordia», cioè troveranno Dio.

Seguono, proseguendo verso destra, le scritte:

BEATI MISERICORDES QUONIAM IPSI MISERICORDIAM CONSEQUENTUR
(Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia)

BEATI MUNDO CORDE QUONIAM IPSI DEUM VIDEBUNT
(Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio)

Seguono, proseguendo verso destra, tre figure:

CASTITAS (la Purezza)

CARITAS (la Carità)

PAX (la Pace)

L’ultima virtù teologale raffigurata è la Carità. Nella mano destra ha una fiamma ad indicare l’ardore dell’amore. Con la sinistra sottolinea lo stolone della tunica a forma di croce, simbolo della massima devozione, tesa fino al martirio. Sue massime espressioni sono la Purezza e la Pace.

I puri di cuore sono simboleggiati dal giglio che, per il suo candore, richiama l’idea di innocenza, di purezza, di verginità. Nella tradizione biblica è il simbolo dell’elezione, di scelta dell’amato («Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli. Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle», Cantico dei Cantici, 2,1-2) o di abbandono alla grazia di Dio («Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro», Matteo 6,28-29).

È puro allora quel cuore che appartiene a Dio senza riserve o divisioni, che non progetta inganni nei confronti di Dio e del prossimo (Salmo 14; 23; Geremia 17,5-11).

Ai suoi discepoli Gesù chiede di essere puri dentro, in cuore: e non accontentarsi di essere legalmente puri, esteriormente ineccepibili (Marco 7,14-23; Luca 11,34-36; Matteo 23,25-26). Ricordiamo che, per la Bibbia, il “cuore” è la coscienza, la sede dei pensieri, della volontà, degli affetti umani; ed è anche il punto di partenza delle decisioni, e quindi delle azioni verso gli uomini e del rapporto con Dio.

Il contrario di un cuore puro è un cuore “diviso” (cfr. Giacomo 4,8: «Santificate i vostri cuori, uomini doppi»). Ciò che impedisce al cuore di essere unito è l’impulso cattivo, che impedisce l’adempimento dello Shema’: «con tutto il cuore…».

La Beatitudine ha un riferimento materiale nella purità richiesta per entrare nel Tempio a godere della visione di Dio (Salmo 24,3s; 51,12; 73,1). Così, la conformità a Dio e alla sua volontà, che contrassegna il cuore puro, sarà portata al culmine e terminerà nella comunione con Lui: vedranno, cioè, Dio.

La Pace è rappresentata coi classici simboli del rametto d’ulivo e della colomba: è infatti una colomba a portare a Noè un ramo di ulivo per indicare la fine del diluvio.

Operare la pace significa cancellare ogni inimicizia col Creatore, restaurando il disegno di armonie che Dio ha tracciato nel suo progetto sull’uomo e sull’universo: armonia tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e la donna e quindi con il suo simile, armonia tra l’uomo e il cosmo (Genesi 2). Agli operatori di pace si schiude l’opportunità di vivere il rapporto con Dio come figli, e quello con gli uomini come fratelli. Significa realizzarsi attuando in sé il progetto di Dio.

Nella parola “pace” c’è un’eco semitica. Il vero oggetto della beatitudine è lo shalom ebraico: obiettivo da perseguire già all’interno della stessa comunità dei discepoli (cfr. Romani 12,17-21; Ebrei 12,14-17). Ai discepoli in missione Gesù chiede di portare la “pace” fra gli uomini (Matteo 10,11-13). Come, del resto, egli stesso portò loro la sua pace (Giovanni 14,27; 20,19-23).

«Saranno chiamati figli di Dio»: l’espressione indica la meta e il vertice dell’opera della salvezza realizzata dal Figlio mandato dal Padre. Nel compimento escatologico Dio riconoscerà apertamente e pubblicamente i “pacifici” come suoi figli.

Seguono, proseguendo verso destra, le scritte:

BEATI PACIFICI QUONIAM FILII DEI VOCABUNTUR
(Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio)

BEATI QUI PERSECUTIONEM PATIUNTUR
QUONIAM IPSORUM EST REGNUM CAELORUM
(Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli)

Segue, proseguendo verso destra, l’ultima figura:

MARTYRIUM (il Martirio, la Testimonianza)

L’ultima figura del ciclo (sulla sinistra nell’immagine) ha in mano una palma e uno strumento di supplizio: è il Martirio, massima espressione dell’amore che ci impegna in una testimonianza piena e totale del messaggio di salvezza.

Questa beatitudine ci presenta il destino del discepolo in chiave non certo trionfalistica. Egli è uno che va incontro agli insulti, alle persecuzioni a motivo del Cristo che ha deciso di seguire nella propria vita. Ma rimane pur sempre una beatitudine, ossia qualcosa per cui c’è motivo di rallegrarsi.

Il credente autentico è completamente consacrato alla giustizia, che non è solo desiderio di un’esistenza sociale più umana, ma è anche impegno per la costruzione di un mondo nuovo di rapporti in cui Dio possa salvare pienamente l’uomo. Non solo ad essi appartiene il Regno dei cieli, ma con il loro operato lo costruiscono.

Dopo la figura del Martyrium, la scritta:

AMBULA CORAM ME ET ESTO PERFECTUS
(Cammina alla mia presenza e sii perfetto)

E si ritorna alla frase di partenza. Che ricorda l’alleanza donata da Dio, le sue promesse e il nostro impegno.

Chi si mette in cammino per raggiungere la perfezione cristiana, però, non è solo. Ha come modello Maria. Il cammino di perfezione proposto dalle Beatitudini corrisponde infatti a quello percorso da Maria. È interessante notare che sulla cupola del Tempio, in corrispondenza del deambulatorio e delle Beatitudini, sono presentati vari episodi della vita della Madonna. Il suo cammino di perfezione. Il fedele cammina, ma avendo sopra di sé una che ha già fatto quel cammino, ce ne indica la possibilità e il risultato glorioso.

Le Beatitudini: un progetto di felicità

Normalmente diciamo: “Beatitudini”. Bisognerebbe piuttosto parlare di Beati. Il programma di vita destinato ai figli del Regno non è una serie di “dovete”, ma un sorprendente martellamento di «beati… beati…». Un grandioso, insistente, appello alla felicità.

La vocazione del cristiano è vocazione alla gioia. La sua strada non è punteggiata di minacce, doveri o costrizioni, ma scandita da ripetute offerte di motivi di esultanza. E questo perché il Regno di Dio è arrivato, è presente nella persona di Gesù.

Ma è necessaria una cosa. Il Vangelo sottolinea: «… gli si avvicinarono i suoi discepoli». Le Beatitudini presuppongono il distacco, la separazione dalla folla, da un certo tipo di mentalità, abitudini, logica.

Cerchiamo la felicità, ma spesso nei luoghi e nei modi sbagliati. Ed ecco le Beatitudini, come dono di Dio. Una possibilità offerta da Lui. Tutto sta in quell’avvicinarsi, in quel lasciarsi dire una parola all’orecchio. Nella volontà di camminare e nella disponibilità a tentare l’avventura.

Reliquia del Beato Timoteo Giaccardo

Il percorso del deambulatorio con le Beatitudini e le Virtù, si conclude con la figura della “Testimonianza”. Ed ecco, vicino, un esempio di testimone: il Beato Timoteo Giaccardo (Narzole, Cuneo, 13.06.1896 – Roma, 24.01.1948).

Nel 1908, all’età di dodici anni, incontra don Alberione, che si offre di aiutarlo a rispondere alla chiamata di Dio. Nello stesso anno entra in seminario. Matura intanto la sua vocazione specifica, quella di essere apostolo della comunicazione. Il 4 luglio 1917 passa alla appena nata Società San Paolo, e don Alberione gli dà l’incarico di “Maestro” dei primi ragazzi.

È il primo sacerdote paolino. Nel gennaio del 1926, don Alberione lo manda a Roma per fondare la prima Casa filiale della Congregazione. Nel 1936 ritorna in Alba come Superiore della comunità di Casa Madre e vi resta fino al 1946, abbellendo di tanti capolavori il Tempio San Paolo e cooperando attivamente con la stampa e con il servizio pastorale alla Diocesi. Nel 1946 è di nuovo a Roma, in qualità di Vicario generale della Società San Paolo. Collaboratore fedelissimo del Fondatore, si prodiga per le Congregazioni paoline, che egli portò sulle braccia nel loro nascere, avviandole a una profonda vita interiore e ai rispettivi specifici apostolati. Muore nel 1948. Il 22 ottobre 1989 il Papa Giovanni Paolo II lo proclama Beato.

Egli ebbe una personalità fortissima, una pulsione tesa a realizzare in sé il motto di San Paolo «per me vivere è Cristo», con la dedizione totale all’apostolato paolino. La sua vita è un esempio attuale di come si possa conciliare la contemplazione e lo spirito di preghiera con la più intensa vita apostolica. Di lui, scrive don Alberione: «Fu il maestro che tutti precedeva con l’esempio, che tutto insegnava, che tutti consigliava, che tutto costruiva con la sua preghiera illuminata e calda». E il Papa, in occasione della Beatificazione, ha affermato: «Il Beato Timoteo si presenta ancor oggi come “il maestro” – perché così lo avete sempre chiamato – delle vostre Famiglie religiose. L’insegnamento puntuale che egli vi suggerisce può essere ben riassunto in questi tre princìpi: la coscienza viva della dignità della vocazione sacerdotale e della missione…, lo spirito ecclesiale di comunione nella missione di tutta la Chiesa…, la totale dedizione allo specifico ministero della Congregazione».

Il sarcofago del Beato Timoteo Giaccardo è opera di Angelica Ballan su disegno di Michelangela Ballan. La vetrata, simboleggiante l’evangelista Giovanni, è di Agar Loche.

Attualmente, nel sarcofago, è custodita una reliquia del beato Giaccardo. Infatti, i suoi resti mortali, nella primavera del 2014, sono stati trasferiti nel tempio di San Paolo in Alba.